L’omicidio della militante ecologista, leader della mobilitazione di una comunità indigena che ha bloccato la costruzione di una diga, è probabilmente legato alle sue battaglie ambientali.
Berta Cáceres, leader del Consiglio delle organizzazioni popolari e indigene dell’Honduras (Copinh) che da anni si batteva per difendere i diritti della sua comunità e per proteggere le terre ancestrali del suo Paese dalla deforestazione e dallo sfruttamento, è stata assassinata. La donna è stata uccisa nella notte tra il 2 e il 3 marzo a colpi di arma da fuoco, nella sua abitazione di La Esperanza, a circa 200 chilometri dalla capitale Tegucicalpa, gli aggressori avrebbero atteso che la Cáceres andasse a dormire per penetrare nell’appartamento e ucciderla.
Ufficialmente le cause dell’omicidio sono ancora ignote, la polizia segue la pista della rapina finita in tragedia, ma la madre di Berta Cáceres non ha dubbi, “noi tutti sappiamo che è accaduto per via delle sue battaglie, ritengo il governo responsabile“.

La donna, proprio la sua strenua opposizione allo sfruttamento delle risorse e delle popolazioni locali, aveva già subìto numerose minacce di morte nel corso degli anni. Era considerata una figura scomoda anche dal governo honduregno che l’aveva accusata di terrorismo, arrestata e perseguitata giuridicamente.

Grazie alla sua determinazione e all’amore per la sua terra, Berta Cáceres era riuscita ad opporsi alla realizzazione del complesso idroelettrico Agua Zarca, previsto sul Rio Gualcarque, nell’Honduras Nord-occidentale. La diga avrebbe devastato l’ecosistema e compromesso l’esistenza della comunità di Rio Blanco, circa seicento famiglie che vivono nella foresta pluviale d’alta quota compresa fra i dipartimenti di Santa Barbara e Intibucà, dipendono infatti dal Rio Gualcarque per l’approvvigionamento di acqua. Lo sfruttamento del fiume, considerato sacro dalla cosmogonia Lenca, era stato autorizzato contravvenendo alla Convenzione del 1989 sul diritto all’autodeterminazione dei popoli indigeni.
Alla guida della comunità nativa la Cáceres ha dato vita ad una protesta pacifica durata oltre un anno, ostacolando l’accesso al cantiere e resistendo a sgomberi, aggressioni, arresti e soprusi. Al contempo aveva portato il caso alla ribalta internazionale, presentando ricorso all’International finance corporation (Ifc), ente finanziatore della Banca Mondiale, e portando il caso fino alla Commissione dei diritti umani, alla Corte europea di Strasburgo e anche in Vaticano.

Il prezzo per la salvaguardia del fiume è stato però elevato per la comunità indigena, tre dei suoi membri sono infatti stati uccisi in circostanze mai chiarite. “Quando ho iniziato a combattere per il Rio Blanco, potevo sentire quello che il fiume aveva da dirmi. Sapevo che sarebbe stato difficile, masapevo anche che avrei trionfato. Me lo ha detto il fiume“, aveva dichiarato la militante.
Berta Càceres sapeva benissimo i rischi che correva, ha dovuto perfino far trasferire i figli in Argentina per ragioni di sicurezza, eppure ha deciso di non chinare la testa, ha deciso di fare la propria parte, guidata da un obbligo morale cui non poteva esimersi. “Dobbiamo intraprendere la lotta in tutte le parti del mondo, ovunque siamo, perché non abbiamo un pianeta di ricambio – ha affermato – abbiamo solo questo, e dobbiamo agire”.